Grande,
grandissima questa prima Biennale del terzo millennio. Quasi
invadente. Ancora nuovi spazi espositivi, come se l'arte, la voglia
di far vedere un altro punto di vista sul mondo, si insinuasse
dappertutto. E questo del resto era il titolo della prima Biennale,
quella di due anni fa, curata allora come oggi dal critico svizzero
Harald Szeemann. Oggi il "dappertutto" si è trasformato in "Platea
dell'umanità": non solo nuovi spazi, ma anche danza, musica,
spettacoli, un calendario fittissimo di mostre a latere e
soprattutto Paesi che mai hanno partecipato alla grande kermesse
veneziana. Il 10 giugno (data d'apertura al pubblico, chiusura: 4
novembre) sarà quindi la prima volta della Jamaica e della Nuova
Zelanda, che a Venezia porta la cultura maori, dell'Ucraina e della
Bosnia Erzegovina. Una giostra inesauribile di proposte, "sorprese",
come le chiama Szeemann, che tra le altre cose dovrebbero chiudere i
conti con il Novecento. Tra installazioni, nuovi linguaggi visivi,
come video e fotografia, performance e film, le centinaia di opere
presentate dovrebbero mettere in cantiere definitivamente la
secolare disputa tra astrattismo e figurativismo. Inventando un
nuovo linguaggio. Sì, ma quale?
La sensazione è che tanta
più umanità è presente, tanto più mondo è messo in mostra fino ai
suoi angoli più estremi: dalle praterie dei nativi d'America alle
savane e megalopoli africane, tanta più presenza umana è insomma
evocata, e tanto invece la figura umana appare priva di identità. A
popolare la più grande Biennale della storia sono ultracorpi
robotici, come quello messa a guardia delle Corderie (uno degli
ultimi spazi strappati al vecchio Arsenale) dall'artista inglese Ron
Muech o come quelli ipersessualizzati del suo compatriota Chris
Cunningham. Corpi virtuali che viaggiano nella grande rete, insieme
a virus micidiali (come nel padiglione della Slovenia),
bambini-coniglietti che si divertono ad uccidere i modelli di una
sfilata (Georgina Starr), bambole sofisticate e algide come le
creature in carne ed ossa di Vanessa Beecroft, nanerottoli del
giapponese Tatsuno Orimoto e così via mescolando alterazioni e
travestimenti. E neanche gli oggetti, fino ad oggi lontani da crisi
d'identità, se la passano troppo bene. Tra i pochi italiani
presenti, e superstiti dopo le lunghe polemiche sull'annullamento
del padiglione Italia voluto da Szeemann, compaiono gli oggetti
sghembi e come privi di ossatura del giovane Loris Cecchini, ormai
più che una promessa dell'ultima generazione, e le "terre desolate",
le periferie squassate e un po' struggenti di Botto & Bruno.
Un'umanità che è anche un po' un ring, perché è qui che si
consumano le battaglie tra i sessi (sono tante le presenze femminili
importanti e agguerrite), le guerre di religione e le critiche ai
suoi massimi esponenti, come quella espressa dalla "Nona ora" di
Maurizio Cattelan (il Papa quasi schiacciato da una meteorite),
artista che comunque è presente per la Biennale anche fuori Venezia,
con l'installazione "Hollywood" dispiegata su una collina di rifiuti
a Palermo
Eppure, tra tanto spaesamento un filo conduttore
dovrebbe esserci. E' Harald Szeemann a suggerirlo per spiegare il
suo lavoro e quello degli artisti: ciascuno "fa appello a ciò che di
eterno c'è nell'uomo, sulla base del radicamento locale, l'unico a
poter dar peso, a legittimare questo appello", ha scritto il
curatore. "Glocalismo", quindi è forse il leitmotiv di questa
Biennale come di molte altre espressioni critiche e creative di
oggi. Parola nuova nata dalla contrazione di globale e locale.
Partorita insomma come una creatura ibrida dagli umori e dalle
domande di questa epoca.
(6 giugno 2001) |
Apre
la Biennale del "Glocalismo"
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